Fake it until you make it


Facebook mi ricorda che otto anni fa guardavo lo skyline di Chicago dal cottage della mia famiglia ospitante sul lago Michigan. La stessa casa dove poi con amici e amiche di scuola abbiamo passato la serata dopo il prom, il ballo di fine anno. Dove una delle mie sorelle ospitanti, che si trovava a Londra per uno stage, ha passato la quarantena una volta rientrata negli States. Che pace che c’è in quel posto.

Nei cottage vicini non c’era quasi mai nessuno, la spiaggia sembrava infinita, l’acqua era gelida (non ho memoria di aver mai fatto un bagno) e ho fatto morire di invidia mio fratello quando gli ho detto che la mia famiglia ospitante aveva anche una moto d’acqua. E ricordo che se prendevamo la macchina per andare in una famosa gelateria nello Stato dell’Indiana l’ora sul cellulare cambiava, perché gli Stati Uniti hanno quattro fusi orari, e una delle linee di demarcazione passava proprio tra l’Illinois (dove eravamo noi) e l’Indiana.

Non so se è perché siamo in periodo elettorale o se è nostalgia generale, ma nell’ultimo periodo gli Stati Uniti mi mancano un po’ di più. Quando io ero lì Obama è stato eletto per il secondo mandato, ma al tempo, di politica americana, non ne sapevo niente. Quando è stato eletto Trump ero in Marocco in una scuola americana. Ne sapevo un po’ di più ma non avevo seguito la campagna. Adesso mi sembra impossibile non seguirla. Io frequentavo una scuola liberal appena fuori Chicago, quindi tutti avrebbero votato per Obama (che è di Chicago). Un ragazzo nella mia classe di latino aveva perfino fatto volontariato per la sua campagna elettorale (adesso credo che lavori da qualche parte a Washington), ma io ero finita in una famiglia abbastanza conservative che avrebbe votato per l’altro candidato, Mitt Romney (che tra l’altro nei mesi scorsi si è unito allemanifestazioni Black Lives Matter).

A novembre sono andata al seggio con la mia mamma ospitante e io stessa ho cliccato sul nome del candidato repubblicano su un totem digitale, cioè una macchina altezza uomo con uno schermo touch - tipo quelle che ci sono negli ospedali per pagare il ticket o per fare l’accettazione al centro medico Sant’Agostino. Adesso, non mi ricordo gli altri dettagli: la fila al seggio, il riconoscimento, se ti danno dei documenti, se ti ritirano il cellulare… Non lo so, mi ricordo che solo il fatto che non ci fossero carta e matita mi sembrava fantascienza, nessuno mi ha chiesto chi fossi, è stato tutto velocissimo, rapido e indolore – beh, un po’ di dolore l’ho provato a non potere cliccare sul nome di Obama. Che poi è stato eletto comunque, anche se sembra una cosa di due secoli fa, dopo quattro anni di Trump.

Non so se è perché abbiamo tutti cominciato a seguire Francesco Costa e la McMusa (se vi appassionano gli USA seguitela su Instagram e iscrivetevi alla sua newsletter, così possiamo vedere i suoi contenuti tirando su col dito), se è perché i social ti schiaffano davanti le tue vecchie foto già al mattino presto, se è perché siamo in piena campagna elettorale – una campagna strana, dove, almeno per me, si alternano istanti di apicale speranza a momenti di profonda delusione - o se è perché è da troppo tempo che non salgo su un aereo. Fatto sta che mi mancano tante cose degli Stati Uniti, e potrei includere nella lista anche i Mac & cheese, che in ogni modo li facciate fanno schifo.

Della campagna elettorale ricordo un po’ i dibattiti presidenziali e il fatto che se ne discutesse in classe il giorno dopo a scuola. Quindi no, non sono cose che si vedono solo nei film. Una delle mie sorelle ospitanti, la più grande, innamorata di Obama come tutti i giovani di Chicago, litigava sempre con il padre. Io capivo poco, tante cose le ho imparate dopo. Tenete a mente che sono partita a 17 anni, con un inglese scolastico, sono arrivata ad agosto e il giorno delle elezioni è sempre il martedì dopo il primo lunedì di novembre.

Vi risparmio le diatribe sul voto per posta che ci sono quest’anno, ci sono giornalisti ben più bravi di me che se ne occupano. Il punto è che, come sono sicura che un giorno andrò in India, sono certa che tornerò negli Stati Uniti. Dopo il mio anno all’estero sono già tornata, ma solo per brevi periodi, e sono stata soprattutto a New York. Ora mi piacerebbe vedere la costa ovest e andare in Texas a trovare una mia cara amica. Non so se da studentessa, da lavoratrice o da vacanziera. Soprattutto non so quando. Ora non mi pare il momento.

Con il fatto della pandemia però, a volte sembra di essere in questa situazione di attesa costante, dove non si riesce a vedere oltre i programmi delle prossime due settimane con la speranza che le cose tornino come prima. Della serie che si sentono ancora frasi come: “quando non si dovrà più mettere la mascherina” o “quando si tornerà a viaggiare a pieno regime” e via dicendo. Sicuramente la pandemia ci lascerà tante cose (gli igienizzanti all’entrata dei negozi?), ma se ci lasciasse tutto? O quasi? Se non si dovesse mai trovare un vaccino? E anche se lo trovassimo, non ci sarà una nuova pandemia dopo? Ci sarà. Allora ci teniamo le mascherine, gli igienizzanti, i voli a regime ridotto, i distanziamenti eccetera.

Da una parte sono quasi più contenta così. Ho pensato tanto al libro Un indovino mi disse di Terzani (l’avevo letto mentre ero in Senegal) e sarebbe bello cogliere l’opportunità di tornare a viaggiare lentamente, senza aerei, anche se a me medesima non erano piaciute le critiche di Terzani ai tempi moderni e ai modi rapidi di viaggiare. Invece tra le mille cose che sfoglio online, leggevo che una società inglese già concede ai propri dipendenti due giorni in più di ferie per andare in vacanza non in aereo. Poi a me è andata bene così, con la pandemia mi sono laureata da remoto a Peccioli (questa storia è già nel repertorio delle cose da raccontare ai nipoti, i figli di mio fratello ovviamente), ho sempre lavorato, ho risentito tante persone lontane, ho persino conosciuto delle persone meravigliose sui social, ho passato tanto tempo con la mia famiglia. Non posso lamentarmi perché sono fortunata.

Però non voglio nemmeno adagiarmi, accontentarmi, dire che basta così. Io le persone così le invidio. Quelle che una volta che hanno trovato un lavoro, un compagno o una compagna, magari fanno dei figli, magari hanno un cane, vivono in paese o in città e non hanno bisogno di altro. È uno stereotipo, ma capite quello che intendo dire. Io non sopporto non sapere cosa succede intorno a me e non sopporto vedere sempre tutto da uno schermo. Poi senza accorgermene mi ritrovo a seguire discorsi di ex presidenti maliani all’una di notte, sebbene non sia strettamente necessario che io perda ulteriori ore di sonno per una cosa del genere. Potrei mettermi una sveglia alle 3 di notte per seguire le ultime giornate della convention democratica.

Se questa però è una delle mie tante forme di disagio, l’ambizione non lo è. Ho appena finito di leggere Limonov di Emmanuel Carrère, e io lo capisco Limonov, capisco la smania di voler essere qualcuno, lo so com’è quel fuoco interiore che ti spinge a fare cose folli e vivere in situazioni disagianti (anche se ai suoi livelli io non ci sono mai arrivata e non ci arriverò mai. Qquando alla fine si parla anche di meditazione poi, vette altissime. Leggetelo, è un bel libro). La sto prendendo larga, ma quello che voglio dire è che a furia di aspettare che le cose tornino come prima, ci si adagia e ci si blocca. Ci si accontenta. Io non mi voglio accontentare. Solo che tu puoi anche essere mossa da tutta l’ambizione del mondo, ma magari non sei abbastanza brava. Magari non ti meriti di stare sull’altare dei grandi. E poi c’è tempo, sei giovane, vuoi mica avere tutto e subito, no?

Negli Stati Uniti si dice fake it until you make it. Cioè tu fai finta di sapere quello che stai facendo, poco importa se è davvero così, l’importante è che gli altri non si accorgano (non troppo almeno) che stai fingendo, e vai avanti finché non hai raggiunto la vetta. A volte mi sento un po’ così, di non essere onesta, di voler far credere di essere più brava di quello che sono veramente. Am I faking it o è la voce interna sabotatrice che al contrario ti fa credere di non essere mai abbastanza e non vale la pena provarci perché tanto non sei nessuno? In medio stat virtus, forse.

Io però negli Stati Uniti ci torno (magari dopo essere stata in India) e il mondo finisco di girarmelo tutto. E anche a vedere di nuovo Chicago dal lago ci torno, pandemia o no.

Commenti

Post popolari in questo blog

Cronache senegalesi: IV parte

25

Riflessioni di un Thanksgiving notturno