Cronache senegalesi: I parte
Il mio primo assaggio di Africa quest’anno è stato il Madagascar,
dove ho trascorso una felice settimana di vacanza. Adesso invece mi trovo dall’altra
parte del continente africano, in Senegal.
Siccome l’esperienza dell’estate scorsa in Messico (di cui ho scritto qui) mi era
piaciuta da morire, ho voluto affrontare le selezioni per un altro programma di
volontariato dell’Università Cattolica. Così eccomi qui: scrivo dall’entroterra
senegalese, da Tambacounda per la precisione, dove io e la mia compagnia di
viaggio, Clara, resteremo per due mesi prima di tornare a Dakar e riprendere il
volo per l’Italia.
Ogni anno l’asticella delle difficoltà da affrontare si
sposta un po’ più in là: il periodo di permanenza è sempre più lungo, i luoghi
dove mi fermo sempre più poveri e disagiati. E le differenze sono palpabili all’interno
dello stesso Senegal: Dakar è una metropoli dove si concentra metà della
popolazione senegalese, che sta crescendo spaventosamente senza un vero piano
urbano, Tambacounda è all’interno del paese, circondata da foreste; l’atmosfera
è quella dell’Africa tradizionale, delle strade di terra rossa battuta, dei
quasi 50 gradi nella stagione secca, quella dei villaggi rurali separati a
volte da foreste, altre volte da campi arati per mezzo di un singolo asinello. L’Africa
dove gli asini, gli zebù, le pecore e i maiali pascolano in libertà, spesso in mezzo
a montagne di rifiuti (che vengono abbondati ovunque visto che non c’è alcun
sistema di raccolta).
Cosa sono venuta a fare qui? La volontaria per l’ONG VIS,
che, in linea generale, con i propri progetti appoggia le opere dei salesiani,
i quali a loro volta si occupano di formazione (quindi di scuole, centri di
formazione professionale ecc.…). In particolare io e Clara lavoreremo nell’ambito
della campagna “Stop Tratta”: in breve, si cerca di creare opportunità lavorative
in loco per ridurre la migrazione irregolare (non la migrazione in senso assoluto),
e si cerca di sensibilizzare i giovani sui rischi di andare all’estero per vie
illegali.
La situazione è molto complessa: la pressione sociale nei
confronti di chi dovrebbe migrare è grandissima (la decisione di partire viene presa
in famiglia, non da parte del singolo) perché le possibilità qui sono davvero
scarse: basti pensare che circa il 90% del lavoro è informale, e in più metà
della popolazione ha meno di 18 anni. Per un europeo il costo della vita è
ridicolo (io stessa non credo di aver ancora afferrato con quanti pochi soldi
si possa mangiare qui) perché la zona dell’Africa dell’Ovest è una delle più
povere al mondo. Ci sarebbero molti altri fattori da prendere in considerazione,
ma già così è chiaro che la gente abbia voglia di andarsene. In realtà i migranti
che arrivano in Europa sono solo una piccolissima percentuale delle masse di
popolazione che si spostano nel continente africano. Ed è paradossale che i
governi europei finanzino progetti di cooperazione come quello di VIS, però poi
non concedano visti agli africani (che così potrebbero migrare regolarmente).
Tutto ciò che vogliono i migranti di tutto il mondo è la
possibilità di lavorare (pensiamo solo a tutti gli italiani che sono emigrati
negli ultimi anni, tutti ne conosciamo parecchi ormai; perché non sono rimasti
in Italia? Et voilà). Detto in altre parole (anche se non vorrei essere
troppo banale) quello che si cerca di fare qui è semplicemente di creare delle
opportunità per la popolazione.
Come potrete aver capito, la mia passione per le migrazioni continua,
anche se l’arrivo a Dakar e poi a Tamba non è stato semplice: adattarsi,
cercare di comprendere le norme sociali, fare l’orecchio all’accento senegalese,
abituare lo stomaco alla cucina locale e il corpo al caldo sono le prime sfide
che incontrano tutti gli espatriati.
Essendo qui da meno di una settimana l’avventura è solo all’inizio.
Però questo paese mi ha già regalato parecchie emozioni, spesso sentimenti contrastanti.
I prossimi mesi saranno una bella sfida ma io sono pronta.
Passeggiando per le strade di Dakar |
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