Migrazioni messicane

Cari lettori, 

Eccomi con una nuova avventura, questa volta in Messico!
Tutto è cominciato a dicembre in realtà, quando decisi di partecipare al programma Mission Exposure (MEX) del centro pastorale dell'Università Cattolica. Il MEX dà la possibilità di fare esperienza della vita missionaria per un mese agli studenti universitari, però a differenza degli altri programmi di volontariato dell'Università, con il MEX il compagno e la meta vengono rivelati ad aprile, dopo un lungo percorso personale che si sviluppa attraverso degli incontri (uno al mese), da dicembre appunto, fino a maggio.
I miei amici più intimi e la mia famiglia sanno che l'incontro in cui mi venne rivelata la meta fu un po' tragicomico, dato che dall'emozione finii in ospedale, e devo dire che nonostante i miei mille viaggi già affrontati ho avuto parecchi dubbi fino all'ultimo momento. 
Alla fine mi sono fatta coraggio e mi sono imbarcata per Città del Messico, dove io e la mia compagna, Ornella, siamo state accolte dalle Missionarie Secolari Scalabriniane. Quest'istituto secolare si ispira all'operato di Giovanni Battista Scalabrini (a Bassano lo si dovrebbe conoscere bene!), che fu vicino ai migranti italiani all'estero alla fine dell'Ottocento. Così ancora oggi tutti gli ordini scalabriniani, tra cui anche le missionarie che ci stanno attualmente ospitando, si occupano di migrazioni un po' in tutto il mondo, e in particolare, senza fare alcun tipo di giudizio, si mettono a disposizione di tutti i tipi di migranti, penetrando, con molta semplicità, nel tessuto sociale in cui decidono di stabilirsi (in Italia, Svizzera, Germania, Messico, Brasile e da poco anche in Vietnam). 
Qui in Messico le missionarie hanno aperto due centri: uno a Città del Messico dove si occupano di fare formazione riguardo alle migrazioni con i giovani universitari (abbattere gli stereotipi, accogliere e camminare insieme nella fede) e uno a Santiago di Querétaro, dove lavorano come volontarie in un centro di appoggio al migrante chiamato CAMMI all'interno dell'Università Marista (non starò qui a tediarvi anche sull'ordine dei maristi nell'era di Google). Compito che attualmente abbiamo assunto anche io e Ornella.
Il CAMMI mette a disposizione dei migranti una serie di servizi: la possibilità di farsi una doccia, lavare i propri indumenti, ottenere dei vestiti nuovi se necessario, poter fare una chiamata ai famigliari e infine mangiare due pasti al giorno, il desayuno e la comida, dei quali ci stiamo occupando noi in questi giorni - in realtà Ornella, che è siciliana è lo chef e io sono l'aiutante imbranata che metterebbe tutto nel microonde.
Attualmente il CAMMI va avanti solo grazie alle donazioni, quindi al momento non c'è ancora un tetto, la cucina è così piccola che io con la mia altezza faccio fatica a entrarci, la quantità di polvere che ho spazzato in due giorni è probabilmente pari a quella che ho spazzato in Italia in tutta la mia vita e ogni cosa è praticamente stata tirata fuori da oggetti riciclati o di fortuna racimolati da qualche parte nella migliore delle ipotesi. Oltre a noi c'è una responsabile generale e altri volontari. In particolare sono presenti una psicologa, e un'altra ragazza che si occupa della consulenza legale, soprattutto per quanto riguarda papabili rifugiati o aventi diritto al permesso umanitario (quelle persone che scappano da violenza, minacce, discriminazioni di ogni genere, ecc.).

Il CAMMI si trova in una posizione strategica perché è a due passi da un treno merci che passa a diverse ore del giorno e della notte; da dove abitiamo si sente benissimo e ogni volta ci fa raggelare il sangue nelle vene. Infatti, mentre in Italia di fronte casa abbiamo il cimitero del Mediterraneo, aquì questo treno merci viene chiamato "La Bestia", perché i migranti, partendo dai Paesi dell'America Centrale vi si appendono sopra e tentano di arrivare fino agli Stati Uniti, oppure chiedono asilo in Messico - per gli esperti di diritto internazionale qui non esiste la differenza tra asilo, come lo abbiamo noi nella costituzione all'articolo 10, e lo status di rifugiato, sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951/67; in più però viene fatta valere la Dichiarazione di Cartagena del 1984.
Mentre ero ancora Città del Messico, ebbi la possibilità di parlare con un richiedente asilo, J. (la sicurezza non è mai troppa quindi metterò solo un'iniziale di fantasia), il quale mi raccontò una serie di tragedie di cui era stato testimone sulla Bestia. Diceva più o meno così:

"Sai, io sono partito dall'Honduras perchè hanno ucciso mio fratello e poi hanno minacciato anche me. Sono partito con mio cugino e il marito di una mia cugina, però quando qualcuno vede la polizia bisogna scendere dal treno e correre il più lontano possibile sulle montagne altrimenti ti trovano e come minimo ti picchiano e poi ti portano a una estaciòn migratoria, alla peggio ti ammazzano direttamente o ti riportano indietro. Così ho perso i contatti con mio cugino perchè ci siamo dispersi sulle colline di notte.
Poi ho dovuto camminare quattro giorni di fila giorno e notte senza mai fermarmi, avevo fame e le scarpe rotte. Anche sul treno di notte bisogna stare svegli perché se ti addormenti cadi e puoi morire schiantato. Una sera un altro migrante era ubriaco, troppo, e io gli avevo detto di non risalire sul treno, ma lui ha deciso di farlo comunque ed è morto. Un'altra volta ho incontrato una coppia di giovani con un bambino appena nato, avrà avuto qualche mese. Non so perché sono partiti, ma il bambino una notte è morto per il freddo.
Io solo ringrazio suor Antonia che ci ospita e si prende cura di noi e le persone che come voi hanno un cuore grande e vengono a trovarci. Io credo che se uno ha la fede in Dio ha tutto, però devi avere fede, devi credere in Dio e Lui provvederà a tutto. Grazie per essere qui, avete un cuore così grande a venire a trovarci".

E io, che da europea posso viaggiare in tutto il mondo, decidere di andare a studiare e lavorare più o meno dove voglio, io che in confronto ho anche troppo perché ho ancora tutta la mia famiglia, che cosa potevo dire a J.? Gli ho solo detto che è molto coraggioso (tù eres muy valioso).

Ecco, il CAMMI accoglie tutti i tipi di migranti che per un po' si fermano a Querétaro, alcuni poi riprendono il viaggio, qualcuno magari si ferma qui. Però il CAMMI è solo un centro diurno, quindi non ha dei letti, ma ai migranti vengono indicate altre strutture (che si chiamano albergues), ed è visitando una di queste a Città del Messico che incontrai J.

Infatti, prima di venire qui, io e Ornella abbiamo passato poco più di una settimana a Città del Messico, dove ci siamo immerse nella cultura locale grazie a qualche visita turistica, ma soprattutto attraverso l'incontro con i giovani messicani che di solito frequentano il centro delle missionarie. In più, per capire meglio la realtà migratoria abbiamo fatto visita ad associazioni di vario genere, perché gli spostamenti delle persone, come penso sia ormai chiaro, non sono tutti uguali.

In primis abbiamo conosciuto delle organizzazioni di deportados, ovvero quei migranti che entrati illegalmente negli Stati Uniti vengono poi espulsi nonostante abbiano un lavoro stabile e figli o consorti pienamente americani, che ora non possono più vedere, perché non è conveniente, dato che il Messico è un Paese ancora essenzialmente povero e in certe zone estremamente insicuro. Composto da 31 Stati federali, in certe aree la violenza dilaga e l'insicurezza aumenta ancora di più a causa della presenza di narcotrafficanti o di trafficanti di esseri umani (peyotes o coyotes, come li chiamano qui), che approfittano della situazione disperata dei migranti per rapirli e poi chiedere un riscatto alle famiglie (questo avviene soprattutto nel nord del Paese e uno dei deportati che abbiamo conosciuto ha accennato a questa sua esperienza senza poter scendere nei particolari per paura di poter essere poi rintracciato; infatti denunciare questi rapimenti alla polizia non è conveniente perché da una parte in certe zone la polizia è molto corrotta, ma anche perché facendo una denuncia si rischia di poter essere poi rintracciati e magari anche uccisi). I deportati si sono stabiliti in un quartiere di Città del Messico che è stato ribattezzato Little L.A. e serve a fare comunità, quindi essenzialmente a farsi forza perché spesso sono discriminati anche qui in Messico dagli stessi messicani, sono visti un po' come traditori e un po' come criminali. Molti hanno lasciato il Messico quando erano piccoli e non hanno mai vissuto nella capitale; spesso hanno perso tutti i contatti perché originariamente vengono da zone che ora sono troppe violente, ma soprattutto, dopo qualcosa come 22 anni negli USA come fai a vivere in Messico senza casa, senza lavoro, senza famiglia in un Paese che non senti nemmeno più tuo? Eh certo, potevano non partire mi direte, ma quando sei divorziata e devi mantenere 4 figli e il Messico non te lo permette, cosa fai? E cosa fai se è due anni che non vedi tuo figlio che ora ha 17 anni e va a scuola negli USA e magari non sa neanche lo spagnolo? Continui a lottare, ti rifugi nella comunità di deportados perché sono tutti nella tua stessa situazione e cerchi di non scoraggiarti mai. Avendo vissuto negli Stati Uniti per un anno, vedevo la loro "americanicità" emergere nel modo di camminare e di vestirsi, era in qualche modo palpabile, e qualcuno non riusciva nemmeno a parlare spagnolo.

Da un altro lato poi ci sono tutti i rifugiati (in questo caso  le migrazioni non sono volontarie, ma causate da fattori che obbligano la fuga, anche se in realtà la linea di demarcazione spesso non è così evidente: come si fa per esempio a decidere se la povertà è tale da costringerti a emigrare per mantere la tua famiglia?) che vengono in Messico per le situazioni di violenza e discriminazione che esistono in Paesi quali Honduras, El Salvador, Nicaragua, Venezuela, Guatemala e in parte Colombia, anche se spesso nelle estaciònes migratorias ci sono migranti provenienti anche da un'altra buona fetta di mondo.
Abbiamo visitato quindi Casa Mambrè, gestita dalle suore scalabriniane; il nome deriva da un episodio della Bibbia ed è dove abbiamo parlato con J. e altri rifugiati, tra cui un paio di trans, una giovane ragazza di 26 anni incinta all'ottavo mese, molti giovani con ancora i segni delle violenze subite sul viso, un ragazzo hondureño senza braccia e senza mani che però ci ha suonato l'armonica a bocca e ci ha cantato "Make you feel my love", nonostante fosse così emozionato da avere la voce che gli tremava. Però c'era anche chi non riusciva a smettere di sorridere perché in qualche modo era stato ricollocato a Toronto e non vedeva l'ora di cominciare la sua nuova vita.

Infine abbiamo avuto anche il privilegio di visitare la parte più isitituzionale che si occupa di rifugiati, ovvero gli uffici dell'UNHCR (o ACNUR secondo l'acronimo spagnolo) e potete solo immaginare la mia gioia quando il ragazzo che abbiamo conosciuto mi ha augurato di vedermi presto sul campo come sua collega, a Baghdad magari, dato che parlicchio un po' l'arabo.
L'ACNUR in Messico si occupa maggiormente di fare pressione sul governo per il trattamento dei migranti nelle estaciònes migratorias, i quali sono centri di detenzione dove vengono trattenuti i migranti irregolari che spesso ci restano tantissimi mesi perché la macchina burocratica che si occupa di rilasciare i permessi umanitari è lentissima. Quindi il compito dell'UNHCR è di individuare potenziali rifuguati e inserirli in strutture della società civile, come Casa Mambrè.

Penso che sia straordinario poter finalmente dare un volto a tutti quei numeri di cui sentiamo sempre parlare. Spesso ci dimentichiamo che dietro alle statistiche ci sono delle persone con una vita e con una loro storia, spesso costellata di ostacoli e sofferenze. Ed è assurdo pensare che per una linea immaginaria tracciata dagli uomini, una persona possa di punto in bianco diventare illegale, per il semplice fatto di aver varcato una frontiera in cerca di una vita migliore.
Allo stesso tempo, penso che noi italiani (oggigiorno nuovamente popolo di migranti, visto che il nostro tasso di emigrazione è più elevato di quello degli immigrati che arrivano nel "Bel Paese") possiamo capire bene l'attaccamento alla casa e alla famiglia. Sarebbe bello che in un futuro non troppo lontano, il diritto a emigrare trovi complementarietà in un diritto a non emigrare, garanzia di una vita dignitosa e libera da violenze nel luogo dove si nasce o si decide di risiedere, e también possibilità di uguaglianza tra tutti i cittadini del mondo. Perché questi giorni mi stanno insegnando che si possono anche parlare lingue diverse, avere abitudini differenti e tratti somatici biologicamente lontani, però basta condividere un piatto di pasta o di tortillas intorno allo stesso tavolo per rendersi conto che facciamo tutti parte della stessa grande famiglia.

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